By Stefan Iglesias

Abstract

In Altre Parole is an autobiographical book in which the author Jhumpa Lahiri describes her journey learning Italian and visiting Italy. Coming from a Bengalese family and primarily speaking English growing up she had to hire teachers and rely on others to help her get her start learning the language. She describes how she felt travelling through Italy, feeling like a complete outsider to the ways of life in Italy and growing closer to both the language and culture through her studies and travels.

Un Viaggio in Altre Parole

Jhumpa Lahiri è un'autrice nata a Londra e cresciuta in America da genitori di origine bengalesi. Sua madre voleva che lei fosse vicino alla sua cultura bengalese, ma lei, anziché parlare o usare quella lingua, si è avvicinata alla cultura italiana e ha imparato la lingua italiana. Quando Jhumpa Lahiri era all’università e stava completando i suoi studi in letteratura inglese, ha fatto un viaggio in Italia e ha scoperto un forte bisogno e uno sconosciuto desiderio di imparare l’italiano. Nel libro In Altre Parole, scritto in italiano, pubblicato nel 2015, e più tardi pubblicato in traduzione inglese, la scrittrice parla di quando ha iniziato a sentire il suo amore per la lingua italiana e, in questo saggio, vorrei parlare di alcuni capitoli del testo in cui la narratrice racconta di come lei ha iniziato a imparare la lingua e di come questo interesse ha cambiato la sua vita, facendole capire come l’apprendimento di una lingua sia un processo in continuo divenire.

Nel suo primo viaggio in Italia, la protagonista va con la sorella a Firenze e insieme loro visitano gli Uffizi. Mentre gironzolano per il museo, la sorella perde il suo cappello, ma grazie a un piccolo dizionario nuovo, tascabile e impermeabile, comprato in occasione del viaggio in Italia, lei trova il coraggio di chiedere aiuto in italiano e riesce a ritrovarlo. La narratrice racconta di avere cercato la parola “cappello” e di avere pronunciato “in qualche modo, sicuramente sbagliato” (Lahiri,18) il termine alla guardia del museo. Pronunciare quella nuova parola era stato difficilissimo, ma in quel momento lei si era resa conto che poteva parlare un po', che era riuscita a comunicare, e da quel giorno non si è più staccata da quel dizionario, diventato un oggetto per lei molto prezioso e tanto usato da diventare negli anni ingiallito, sporco e con le pagine staccate.

La narratrice spiega di usare sempre il dizionario nei suoi primi anni di studio e lo descrive come una cosa indispensabile, come “uno spazzolino da denti o un paio di calze da ricambio” (Lahiri, 20) che devi sempre avere con te per ogni occasione. Lo descrive anche come “un genitore” (Lahiri, 20) perché è come una guida di cui ha bisogno per crescere. La relazione tra la protagonista e il dizionario cambia nel corso del racconto: se prima è come un genitore autorevole con gli anni diventa un fratello. All’inizio, il dizionario è come una figura severa che esiste per correggere i suoi errori, non importa quanto piccoli o quanto grandi, ma dopo molti anni, quando ormai non ha più bisogno di regole, diventa come un fratello amato. Ma il dizionario rimane lo stesso pieno di segreti, pieno di cose che non conosce ancora e dunque lei ammette che la lingua rimane sempre più grande di lei.

Quando nei suoi primi anni di studio, la protagonista impara l’Italiano sui libri, da sola, non è molto contenta. Dice che non le piace impararlo con un libro perché è tutto in silenzio. A lei, infatti, piaceva essere in Italia, quando era circondata dalle conversazioni e dai suoni della lingua. Studiare l’italiano in America la fa sentire in “esilio” (Lahiri, 25). Frequenta anche dei corsi per cercare di impararlo, pratica con insegnanti madrelingue e fare gli esercizi di grammatica le viene molto facile, ma quando prova a mettere in pratica quello che ha imparato, cercando di leggere un libro di letteratura, si sente persa: "quando provo a leggere La ciociara di Moravia, dopo due anni di studi, la capisco a malapena” (Lahiri, 27). Il libro è ancora troppo complicato, ma lei non si arrende e continua a sfidare se stessa con la lingua.

Un giorno la narratrice va in Italia, a Mantova, per fare la presentazione di un suo libro scritto in inglese. Durante la conferenza, un traduttore la aiuta perché lei capisce che cosa le chiedono, ma non riesce ancora a parlare e a spiegarsi bene. La narratrice scrive: “Non è sufficiente ciò che ho imparato in America, in aula. La mia comprensione è talmente scarna che, qui in Italia, non mi aiuta” (Lahiri 28). Lei vuol dire che ha studiato molto ma ancora non può esprimersi in italiano come vorrebbe. La narratrice usa un’altra metafora e dice che la lingua è come un “cancello chiuso” (Lahiri, 28) che non si apre. Ma spiega anche che i suoi editori italiani, Claudia e Marco, le danno le chiavi per aprire il cancello. Quando loro imparano che lei ha studiato italiano, smettono di parlare in inglese e iniziano a parlare con lei in italiano, parlano con chiarezza e pazienza, la guidano come genitori, proprio come il dizionario nel museo degli Uffizi, e la protagonista capisce che per imparare una lingua “bisogna avere un dialogo…per quanto infantile, per quanto imperfetto” (Lahiri, 29).

In questo racconto autobiografico, Jhumpa Lahiri parla della sua esperienza di apprendimento della lingua italiana. All’inizio lei trova che le risorse a sua disposizione non siano sufficienti. Libri, corsi, e insegnanti sono utili, ma solo in parte. Quello che lei usa per migliorare davvero è la conversazione: inizia con una parola verso la guardia di sicurezza negli Uffizi, continua con Claudia e Marco che le fanno capire quanto sia importante avere un dialogo, e prosegue negli anni fino a diventare una storia scritta in italiano della sua esperienza. Ma lei capisce anche che ci saranno sempre nuove cosa da imparare, capisce che il dizionario tascabile, per quanto piccolo, conterrà sempre dei segreti e cioè delle parole che lei non conoscerà mai.

Quello che si impara leggendo questo testo è che, nella vita, una lingua non si può mai imparare completamente. L’idea che si possa essere fluenti in una lingua che non è la nostra lingua madre non è una verità concreta. L’apprendimento della lingua è un processo continuo. Jhumpa Lahiri dimostra questo. Anche se lei può scrivere libri in italiano, il suo apprendimento non è ancora finito. Questo è un aspetto che è vero per molte cose e molti mestieri nella vita. Pittori, scrittori, musicisti lavorano continuamente e costantemente per ottenere migliori competenze in quello che fanno.

Mi è piaciuta molto questa storia. È un racconto che parla di come una persona può innamorarsi di una lingua e si impegna per impararla sempre meglio. È bello trovare un interesse in una lingua straniera e provare a impararla. Io cerco sempre cose nuove da imparare, nel disegno, oppure cucina, oppure con il mio italiano, che, come Jhumpa, sto studiando da qualche anno. Io mi sento come la scrittrice. All’inizio cercavo la lingua italiana ovunque, disperato di sentirla, leggerla, trovarla nella mia vita quotidiana. Questo interesse mi ha spinto a studiare italiano all'università e a viaggiare e a studiare in Italia, dove sto vivendo adesso. Vorrei essere sempre circondato da questa lingua, arrivare a un punto in cui posso parlare con la fluidità delle persone che abitano lì. Anche se questo sembra quasi impossibile, spero di trovare anche io una chiave.

Biographical Statement - Stefan Iglesias

I study International Business and Spanish/Italian at UMass Lowell and am currently studying Italian and French Language overseas at the University of Modena and Reggio-Emilia. I am interested in the study of foreign language and linguistics, European history, and international economics. I enjoy travelling and visiting art museums as well as illustration. Some of my favorite authors currently include Gabriel García Márquez, Slavoj Zizek, and Enzo Biagi. When I return from studying in Italy, I hope to continue my studies in Italian as well as Studio Art and Business.

Bibliography

  • Lahiri, Jhumpa. In Altre Parole. Parma, Ugo Guanda Editore, 2015.